Un nuovo appuntamento con uno dei guest post di Susanna Trippa, un racconto intitolato Afghanistan: il nuovo e l’antico.
Questo fa parte di alcuni racconti On The Road sul “viaggiare nei primi anni Settanta”, estrapolati dal suo romanzo Come cambia lo sguardo.
La ringraziamo di cuore per questi racconti di viaggio , che sono sempre affascinanti, potete anche leggere Viaggio nel tempo: A Bologna nei primi anni Settanta.

Afghanistan: il nuovo e l’antico

Finalmente passammo anche l’ultimo confine e arrivammo a Herat… nell’agognato Afghanistan.
Palme, e poi l’entrata nella cittadina attraverso un arco ornato come da fiaba di Aladin, la sorpresa di un mercato multicolore.
Entrammo in un alberghetto. Le stanze davano su un giardino interno, dove si potevano trasportare i letti di bambù nelle notti più calde, e dove, all’ombroso banco di un bar, il proprietario, elegante nel suo candido abito tradizionale, prima ci offrì fette di un melone bianco che vedevo e assaggiavo per la prima volta, poi ci propose una stecca di “afghano” nero.
Dopo Herat ancora deserti e pietre, e i monti sullo sfondo. Una notte, con gli occhi in su a cercare le nostre stelle, le costellazioni, oh… non le vedemmo… fino a renderci conto che ne guardavamo di diverse perché eravamo sotto un altro cielo!

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E poi l’arrivo a Kabul, ancora vitale e decorosa prima di ogni terribile guerra e del potere talebano in seguito.

Gli uomini, accoccolati a fumare o ritti e fieri; le donne, alcune nascoste dal burqa con il nero degli occhi che baluginava tra la grata fitta del tessuto, ma altre, vestite all’occidentale, in giro come noi a lavorare e a studiare.
Spesso, molti anni dopo, avrei ripensato a quelle giovani donne che avevo visto allora camminare tranquille per le strade.
Ogni loro possibilità di vita ‘normale’ era stata bloccata e perseguitata.
Al tempo del nostro viaggio, mi parve invece che, con una certa naturalezza, il nuovo procedesse insieme all’antico.

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Sulla collinetta pietrosa del loro cimitero i bambini, con lunghe tuniche a righe, giocavano tra svolazzare di corvi e veli strappati. E intanto, anche se lentamente, il progresso avanzava.
Noi giovani occidentali, i “fricchettoni” come ci chiamavano allora, cercavamo di vestirci come loro e acquistavamo, su e giù per Chicken Street, vestiti, gilet, pantaloni, camicie e berretti; c’infilavamo poi nei tanti ristorantini e ce ne stavamo là, intontiti dall’altitudine e dal fumo, alquanto ridicoli a rivederci adesso.

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Scorrevano i giorni nell’arida Kabul. Si avvicinava il momento di riprendere il terribile pullman del ritorno. In realtà avrei voluto avere più soldi e volare su Milano, ma non era possibile. Eh… sì, fu una bella tirata di nuovo.
A Sarajevo, nella piazza Baščaršija, intatta e bellissima prima dei terribili bombardamenti di quindici anni dopo, pareva d’essere già a casa.
Sotto quel cielo azzurro, con le belle montagne attorno, nell’aria frizzante del mattino si adagiava la conca del piccolo centro; spuntavano alti i minareti tra il legno scuro di edicole traforate e le antiche case.

                                                                                                 (continua)

Se volete conoscere meglio Susanna Trippa, potete leggere le recensioni e le interviste all’autrice dei romanzi Il viaggio di una stella e I racconti di CasaLuet.

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