Un nuovo appuntamento, questa volta estivo, con i guest post di Susanna Trippa, un racconto intitolato Erminia ed io a spasso per la Francia.
Questo racconto è estrapolato dal suo romanzo I racconti di CasaLuet, edito da Lampi di Stampa.
La ringraziamo di cuore per questi racconti di viaggio , che sono sempre affascinanti, potete anche leggere Viaggio nel tempo: A Bologna nei primi anni Settanta.
Erminia ed io a spasso per la Francia
Mentre me ne stavo con il viso incollato ai vetri rigati di pioggia dell’aeroporto a scrutare tra i fari dei taxi e gli schizzi d’acqua, la mia amica del cuore mi arrivò alle spalle: ci buttammo le braccia al collo e qui ricominciai a singhiozzare, e lei con me, poi ci allontanammo dal tapis roulant verso l’uscita, un po’ continuando ad abbracciarci e un po’ singhiozzando come vitellini appena allontanati dalla mamma… il carrello con i bagagli da noi strattonato e oscillante alle nostre spalle.
Erminia, la mia amica del cuore… anima mia… cuoricino mio… che non vedevo da ben due anni.
Era il mio doppio e il mio contrario, era l’altra faccia di me… non era l’amore… ma qualcosa di più.
La mattina prima, aggrappata al telefono e alla sua voce lontana, le avevo raccontato tutto o quasi, eravamo abituate ad un nostro linguaggio cifrato e ci capivamo sempre.
Singhiozzavo e mi giungeva la sua vocetta d’oltre oceano.
Con voce decisa buttò lì: «Vengo da te… vuoi? E facciamo quel viaggio insieme… io e te… come ai bei tempi!».
Lasciammo l’aeroporto, non prima di avere fatto incetta di cioccolato al duty shop: era la nostra medicina… da sempre.
La sera, fino alle prime ore della notte, ci vide nel cono di luce della camera d’albergo: acciambellate, sdraiate, saltellanti da un letto all’altro, si ammonticchiavano cartine sottili e stagnola luccicante, mentre fazzoletti apparivano e sparivano dalle tasche sformate dei nostri pigiami.
Al cioccolato si era aggiunta una bottiglia di champagne: ci limitammo a quella… non bevevamo mai superalcolici.
Dal pianto – Erminia aveva il raro dono di piangere con te solo per simpatia – dal pianto passammo dunque a improvvise risatine sommesse, che diventarono sempre più rumorose, e inscenammo una delle nostre famose battaglie fracassone con cuscini e solletico, finché cominciarono a bussare al di là del muro e a inveire.
La mattina dopo era domenica: Parigi sonnecchiava insieme a noi, mentre la luce di un aprile precoce asciugava le pozzanghere sull’asfalto e gonfiava le gemme sugli alberi.
Parigi ci ospitò per tutto il giorno.
C’era l’aria tiepida della prima domenica d’aprile, e i raggi bassi del sole al tramonto ci scaldavano ancora, mentre i singhiozzi e l’ilarità eccessiva della sera prima avevano lasciato il posto a chiacchiere tranquille
e a lunghi silenzi.
Sdraiata a pancia in giù, nel parco di Montsouris, sentivo fili d’erba che solleticavano un lembo di pelle all’altezza dello stomaco, che un bottone slacciato della camicia aveva scoperto; i gomiti, che poggiavano sul prato, mi facevano un po’ male.
Sentii su di me lo scorrere del tramonto… senza vederlo, il tepore in un attimo divenne un’arietta prima fresca e poi fredda, cominciai a sentire la pelle d’oca sotto il tessuto leggero della camicia, ma me ne stavo ancora così… ad occhi chiusi… troppo pigra per prendere il maglione buttato di fianco sull’erba.
«Fa freddo, andiamo?». Come sempre era Erminia a pronunciare la frase, e nel dirlo, intuivo dalla posizione della voce che già si era alzata, pronta a muoversi.
Aprii gli occhi e il sole non c’era più, lo sapevo, ma un conto è sapere e un altro vedere.
Mi scossi… di colpo stava calando la sera; di qualche passo dietro ad Erminia, mi girai ancora verso il laghetto.
Quella sera, mentre mangiavamo, con in mezzo uno di quei tavolini sghembi che popolano le brasserie, prendeva una forma più precisa il girovagare per la Francia che avevamo abbozzato durante il giorno. Anzi, ci chiarivamo che volevamo avere ben poco di preordinato: andarcene qua e là nel nord… intanto una sosta in Normandia da un tizio che Erminia aveva conosciuto chattando.
Avevamo noleggiato un’auto, una piccola Peugeot bianca che ci attendeva obbediente.
Erano quasi le nove e si era in partenza, bagagli e tutto, a districarci per uscire da Parigi. Guidava Erminia. Piegandomi verso il finestrino scrutai il cielo tra un palazzo e l’altro: c’era un poco di vento, quello della primavera, che sospingeva bianche nuvole rigonfie.
Abbassai un poco il vetro, come mi piaceva l’aria in primavera! Al di là dell’inquinamento e tutto quanto, aveva pur sempre quel frizzare inconfondibile… e in più, eravamo in viaggio! Che bello, avevo voglia di tutto questo! Appoggiai la testa all’indietro, mi rividi due giorni prima: distrutta su quell’aereo.
Finalmente un poco di pace. Avevamo deciso di evitare le autostrade: volevamo seguire il corso della Senna fino a Rouen, come si faceva una volta, e da là proseguire a nord-est verso Calais.
Ci eravamo lasciate alle spalle anche l’ultima banlieu, e con l’aiuto di una carta molto dettagliata che Erminia aveva tirato fuori con aria di mistero, ci stavamo inoltrando in una rete di strade secondarie. Quell’anticipo di primavera, che anche il centro di Parigi ci aveva lasciato intuire, si dispiegava ora con la naturalezza che pare magica a chi viene dalla città.
In alto correvano nuvole sullo sfondo di un azzurro che nello scorrere delle ore diventava più intenso. Campi coltivati e pascoli, e oltre gli steccati, vicine quasi a toccarle o lontane divenute puntini, mucche pezzate e un cane a correre attorno. E gli alberi, a macchie o in filari lungo il bordo della strada; e la strada stessa, calma e snodata tra canaletti d’irrigazione e recinzioni, con l’apparenza di terminare bruscamente o persa all’orizzonte nel suo tipico saliscendi.
Ancora, come da bambina, sul dosso prima della discesa, trattenevo il fiato.
«Sono un po’ stanca». «Allora mangiamo un panino e ti do il cambio». Ci sedemmo sull’erba. La Peugeot più in là taceva, era la nostra scatoletta magica che ci portava in giro, ma in quel momento, senza il ronzare di sottofondo del motore, potevamo abbandonarci ad un intrecciarsi di suoni: richiami di uccelli, un calabrone precoce. È presto per le cicale, pensai. Nel campo di fronte a noi, in fondo in fondo come un
puntolino, stava un uomo su di un trattore; vicinissima a me, proprio davanti ai miei occhi, volteggiava impalpabile una farfalla screziata in giallo e nero, qualche giro ancora… fino a posarsi sulla mia manica. E sopra a tutto questo, un bouquet di profumi.
E in auto trascorremmo il resto della giornata. Le indicazioni delle carte stradali, che seguivamo alla lettera, ci portarono all’interno di una Francia che pensavo non esistesse più: linde fattorie al di là di prati recintati con mucche al pascolo, attraversamenti brevi di minuscoli paesi, piccole boulangèries che si schiudevano educatamente al tintinnio di un campanello. Qua e là meli, con la tenerezza dei loro
germogli: verde e rosa messi lì per commuoverti.
Arrivai anche a vedere l’uomo in bicicletta, la sua bella baguette appoggiata dietro, ve lo ricordate il manifesto che invitava alle vacanze in Francia anni fa? Da non crederci! Poi venne la sera. Era bello
andare e andare, piano piano con la piccola Peugeot, ma oramai avevamo fame e sonno, e così sognavamo buon cibo e un luogo accogliente per la notte.
E non andavamo male come tempi; anche se la giornata si era lentamente consumata in un dedalo di strade secondarie, eravamo già oltre Rouen.
Erminia ed io a spasso per la Francia
Nessuna città ci avrebbe avute: eravamo decisissime. Ci apparve addirittura una locanda… una vera locanda, con una bella insegna in ferro battuto: un galletto con la sua cresta rossa a sfidare l’aria, dietro a lui il sole. Mangiammo in una stanza che sembrava finta, tanto era bella. Era tardi e c’eravamo solo noi.
Il proprietario, che ci serviva per ritornare in fretta al banco del bar nella stanza di fianco, ci aveva sistemate di fronte al camino, che accese proprio per noi.
Una gustosissima zuppa di legumi, burro fresco, paté, prosciutto e un delizioso vino rosso. Si affacciò la moglie dalla cucina: volevamo anche crêpes con marmellata fatta in casa e sidro, per finire? Ma certo che volevamo!
Stavo proprio bene, e anche Erminia… lo vedevo dalle sue gote rosse e dal suo chiacchierare animato. «Vedi», mi stava dicendo, «domani prendiamo per Dieppe, non ci vuole molto… è in questa zona qui.» e m’indicava sulla carta un punto lungo la costa.
Il mattino dopo dormimmo a lungo, molto più di quanto avremmo voluto. Accidenti, erano quasi le dieci! Andai a tentoni alla finestra a scostare gli scuri: pioveva fitto.
Svegliai Erminia: era sempre lei che dormiva di più. Troppo tardi per far colazione con tutti i crismi: caricammo le nostre cose sulla Peugeot e al volo prendemmo un caffè al banco del bar.
Decidemmo così d’imboccare la statale e fare rotta su Dieppe.
Il suo amico chattante stava da quelle parti. Quel giorno non parlammo molto, anche perché piovigginò quasi sempre, e l’umore di tutte e due allora volgeva al brutto. Avevamo abbandonato la statale di nuovo, e ancora pascoli, e mucche, e steccati, e nuvole che attraversavano veloci il cielo sopra di noi, sospinte da annuvolamenti più densi e scuri che
incalzavano da nord. Si mise a piovere più forte e proseguì per un po’, mentre – tic tac – i tergicristallo implacabili segnavano il tempo; poi sempre più adagio, finché l’acqua sul vetro si mise a scivolar via lentamente.
Non più pascoli, steccati, mucche, fattorie… cominciammo a sentire odore di mare, anzi d’oceano. E il paesaggio divenne spoglio… cespugli bassi al più, e si aveva la sensazione che l’orizzonte fosse più ampio. L’immancabile saliscendi, e d’un tratto, la sorpresa della costa di fronte a noi, alta e rocciosa.
Ci trovammo a scendere dall’auto e a stare, non so quanto tempo, là ferme, a guardare giù verso le onde che sbattevano con violenza, e a farci sferzare non tanto dalla pioggia, che era poi solo una pioggerellina fitta fitta, quanto dal vento che mulinellava nell’aria spruzzi fino a noi.
Nubi sempre più cupe invasero il cielo; il vento, a onde come fosse mare, ci sbatacchiava addosso il tessuto dei nostri abiti; sul viso sentivo gli spruzzi dell’acqua mista a sabbia, che arrivavano a pizzicarmi la pelle. A destra e a sinistra, fin dove potevamo vedere, la costa proseguiva così, alta e minacciosa.
Mi sentii piccola… come le formichine di prima o un omino dipinto di spalle dal grande Friedrich.
Al di sotto, il vuoto: una sensazione di vertigine mi fece guardare in basso.
Brutti pensieri mi attraversavano la mente, come faceva il vento con quel cielo del nord. Guardai Erminia: il suo sguardo mi spaventò, tanto era cupo e insieme determinato. «Andiamo, dunque?» mi chiese, ma più che una domanda pareva un’intimidazione.
Oltre un dosso si rivelò il castello, con quella sua torretta che già avevo notato, svettante oltre un alto muro di cinta, in compagnia di fronde che sfuggivano al di sopra della pietra grigia. Da là non vedevo l’entrata, e così procedetti torno torno lungo la stradetta che ne seguiva l’andamento. L’entrata, pensavo, mentre guidavo ancora la piccola Peugeot sul ghiaietto della strada, l’entrata dunque, dev’essere
sicuramente dalla parte dell’oceano… è in sintonia con lo stato d’animo di chi se l’è fatto costruire proprio qui. E intanto, mentre così rimuginavo, mi si rivelava la costa, e l’oceano là in fondo.
Accidenti! La bellezza del luogo era da lasciare senza fiato, probabilmente in ogni ora del giorno e in ogni stagione dell’anno, ma ora poi! Il sole, che già da prima era riapparso, sfolgorando gran parte del cielo con i suoi raggi bassi, ora colpiva in maniera variegatissima onde, spuma marina, bianca cortina di nubi e pulviscolo sottile. L’effetto scenografico era incredibile.
«Lui lo sa che arriviamo?». Erminia arrossì. «Gli ho mandato un telegramma ieri.» Chissà poi quando gliel’aveva mandato… «Non gli hai telefonato?» «Non ci siamo mai sentiti per telefono, non conosciamo le nostre voci, ci sembrava troppo intimo oppure… troppo banale.» Ci rinunciavo! «Lo sa almeno che ci sono anch’io?»
«Sì, certo!» e mi guardò seria. «Non credo ci sarei mai venuta da sola.»
Non sapevo più cosa pensare, ma oramai eravamo in ballo!
Se volete conoscere meglio Susanna Trippa, potete leggere le recensioni e le interviste all’autrice dei romanzi Il viaggio di una stella e I racconti di CasaLuet.
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21 Luglio 2023 alle 15:35
Ho sempre pensato che ogni storia sia destinata potenzialmente a diventare un film se si svolge a Parigi. Questa città ha un non so che di cinematografico e non stanca mai!
23 Luglio 2023 alle 20:49
Che bello leggere di un viaggio tra migliore amiche che parte da Parigi e continua in un on the road verso la Normandia, un ottimo spunto per un viaggio da ricreare anche nella realtà.