Un nuovo appuntamento, questa volta estivo, con i guest post di Susanna Trippa, un racconto intitolato La chitarrina: da Petra a Liverpool station.
Questo racconto è estrapolato dal suo romanzo I racconti di CasaLuet, edito da Lampi di Stampa.
La ringraziamo di cuore per questi racconti di viaggio , che sono sempre affascinanti, potete anche leggere Viaggio nel tempo: A Bologna nei primi anni Settanta.
La chitarrina: da Petra a Liverpool station
Al numero venticinque di Princelet street, a Londra, Meb sedeva in cucina, infagottata nella vestaglia di panno rosso, quella che usava d’inverno.
Era il mattino dell’ultima domenica di marzo. Un marzo tradizionalmente volubile nel suo alternare folate di vento, che mulinellavano foglie secche, a mezz’aria, e squarci di azzurro fra i tetti.
Nell’angolo in alto a sinistra della finestra di fronte a lei, i rami del melo, che conosceva così bene, erano ancora stecchi di legno rigidi; le prime gemme, se già c’erano, non riusciva a distinguerle così senza occhiali.
Meb fissava la sua tazzona di porcellana a roselline rosa e foglioline verdi, posata davanti a sé; ne usciva un vapore leggero.
Allungò la mano verso la tazza, ma la ritirò vuota. Si sentiva senza forze, ogni gesto era faticoso e inutile. Riusciva solo a pensare che fino a una settimana prima tutto andava bene.
Meb cercò d’inghiottire le lacrime che stavano arrivando; il suo John non c’era più, e le gemme del melo avrebbero continuato a vivere.
Entrata in camera si vestì, andò in bagno ma, rientrata per mettere l’orologio, si fermò immobile ad ascoltare, alzando gli occhi al soffitto: per un attimo le era sembrato di sentire un leggero scricchiolio.
«Nonna, dove sei?» «Mikie, sei tu? Vieni, sono qui dietro! Il cancellino è aperto.»
Quel poco che restava di marzo era finito, erano passati anche aprile e maggio.
La sua tipica fetta di casa londinese, tre piani con i cinque gradini all’entrata, aveva davanti il minuscolo riquadro di terra come le altre; ma sul retro aveva in serbo una sorpresa… un vero giardino… un Victory Garden da tempi di pace, come lo chiamava Meb.
Mikie la trovò, come altre volte, che armeggiava fra sacchi di terra e scatole misteriose.
«Nonna, mi ascolti?» «Dimmi, caro, certo che ti ascolto.» «Il nonno lavorava a qualcosa sul periodo del blues?» «Sì tesoro, stava facendo delle ricerche; era già da un po’ che ci lavorava, penso che volesse farne qualcosa.» «Infatti».
Mi sembrava di ricordare, e così ho cercato… ho guardato qualche biografia su internet. Non
chiedermi perché, non lo so neanch’io.» Mikie, che era più alto di lei di tutta la testa, si voltò leggermente cercando di scrutarne l’espressione, senza che se ne accorgesse; era il caso di dirglielo o era un’idiozia e l’avrebbe solo intristita? Si girò decisamente verso di lei.
«Nonna, lo sai come è morta Bessie Smith?» le chiese, scandendo le parole. Meb conosceva suo nipote, era un intuitivo come lei; John e sua figlia li chiamavano gli stregoni della famiglia, mentre suo genero Robert stava zitto. Lo fissò: «Cosa vuoi dirmi Mikie?».
«Bessie Smith è morta nel 1937 per un incidente stradale, provocato da un camion, si era schiacciata la cassa toracica, ci fu una forte emorragia e non fecero in tempo a salvarla perché poi successe che la macchina di un medico, arrivato lì per caso, mentre correva a portarla in ospedale, ebbe un altro incidente».
Ecco, l’aveva detto, gli era uscito tutto d’un fiato! Con le labbra Meb disse «E allora?». Ma già sapeva
che la sua era solo una reazione automatica. E mentre Mikie rispondeva «Oh… niente», lei si stava già dando la risposta da sola.
John si è schiacciato la cassa toracica, è morto per emorragia perché il camionista è scappato, poi ha avvisato, ma troppo tardi, e il povero Roberto Sassi è morto anche lui andando a cercare soccorso, e tutto questo è avvenuto non nel 1937, ma alle soglie del duemila!
E poi, fin da quando era successo, dentro di sé aveva sempre sentito che c’era stato come un accanirsi… perché tutto andasse proprio così! E poi, e qui si sentì rabbrividire, era la strana sensazione che la morte di John le ricordasse qualcosa d’altro!
Documenti, tessere… una vecchissima istantanea di lei e John con la loro prima band elettrica.
Continuò a rovistare, sentendosi triste e a disagio. Era uno di quei portafogli con tasche di varie misure, e in fondo a una di queste, trovò un biglietto di carta sottile, color seppia, ‘Jacob Gulgig liutaio’. Seguiva un numero di telefono.
Girò il biglietto. Di fretta, appoggiato chissà a cosa, John aveva scarabocchiato, non aveva dubbi che fosse la sua scrittura, due parole… sì, pareva ‘Liverpool station’.
Tutto questo non le diceva niente, e sì che a Londra ne conosceva di liutai o posti del genere. Dal nome… avrebbe potuto trovarsi nel quartiere ebraico.
Il mattino dopo Meb non si sentiva in forma neanche un po’, ma come le succedeva nei momenti di crisi, pensò a come era stata quell’irlandese di sua madre e a come prendeva sempre il toro per le corna; e così fece quello che secondo lei doveva fare, cioè prese il bus 46 che andava a est, verso il quartiere ebraico. Scesa dal bus, si fermò all’incrocio di due vie per consultare la carta stradale; e si rese conto che da
secoli non andava lì.
Il quartiere era abitato da ebrei ortodossi, e le sembrò, a così poca distanza da casa sua, di essere entrata in una cittadina polacca del primo novecento.
Gli uomini camminavano per le strade, barba e pèyess alle tempie, pallidissimi, in abiti neri e cappello come fosse una divisa; le donne, di rado sole, in copricapo o parrucca, e accompagnate da grappoli di bambini, entravano e uscivano da negozi con insegne dimesse. «Tutto così in bianco e nero… la sensazione è di un tuffo nel passato o dentro un sogno… e che cupezza… ecco perché sono venuta qui
così poche volte.»
Mentre così borbottava e pensava, svoltò da Clapton road in una via secondaria.
La vetrina di una macelleria mostrava pezzi di carne appesi a grossi ganci.
Subito dopo, un portone! Ecco, era quello… dava in un passo carraio lungo e stretto, che pareva inghiottire la luce del sole, per farla poi riapparire in un cortiletto quadrato, dove una bambina, che poteva avere nove o dieci anni, dondolava una carrozzina avanti e indietro.
In un fascio di sole, il pulviscolo si mischiava alla segatura del falegname alla sua destra… truciolame a terra… e alla sua sinistra “Jacob Gulgig liutaio” una vecchia insegna di ferro sulla porta. Sbirciò oltre la vetrina polverosa, indovinandovi qua e là qualche strumento.
Il biglietto nella sua tasca sembrava scottare, e quella scritta di John… “Liverpool station”! Si sentì
scoraggiata… non sarebbe mai venuta a capo di niente! Oh, al diavolo… e con aria decisa toccò la maniglia della porta a vetri, che si spalancò.
Nel vano della porta, a quindici centimetri dal suo naso, stava un uomo di statura e corporatura minuta; poteva avere più o meno l’età di John, capelli neri e ricci con pochi fili grigi, barba altrettanto, e però senza pèyess e senza cappello. «Ecco, per favore… mi scusi, mi chiamo Meb Ridley.» «Sono Jacob Gulgig. Prego, si accomodi.» e arretrava, allargando le braccia davanti a lei.
«Suo marito, cara signora, era venuto qui da me perché cercava… una chitarra». «Una chitarra?» Meb si guardò attorno, pensando alle chitarre fantastiche che aveva John, poi diventò rossa, temendo di averlo offeso. «No, lo so, lo so cosa pensa… ma lui cercava una chitarra… così per…» Meb continuava a guardarlo interrogativamente. «Ecco… per affezione.
Adesso le spiego: cercava una chitarra così e cosà, che lui sapeva essere stata spedita dall’America… si figuri… ancora negli anni Trenta.»
«E adesso dov’ è?» chiese Meb, con voce esitante.
«Ma cara signora… lei non l’ha vista? Sarà a casa sua… non so…» le rispondeva Jacob Gulgig, mentre i suoi occhietti neri la fissavano tra l’assorto e lo stupito.
«Ah… ho capito… grazie. Ma, senta…» aggiungeva Meb, «sul biglietto John aveva scritto… Liverpool station… le dice qualcosa?».
La chitarrina: da Petra a Liverpool station
«Liverpool station… Liverpool station…» faceva, guardandola con quei suoi occhietti neri, «no, mi spiace… non mi dice proprio niente, ah… mi scusi un attimo, cara signora… il telefono… sto aspettando una telefonata da mio fratello…» e Jacob Gulgig a passetti rapidi curvò dietro il tavolo, e scomparve dietro a una tenda di stoffa verde; e da lì, terminato il trillare del telefono, cominciarono a intervallarsi brani di una
conversazione in yìddish e risatine.
Meb fece un mezzo giro su se stessa, sospirando, ma sobbalzò leggermente nel vedere, inquadrata nel vano di una porta alla sua sinistra, una donna vecchissima, esile esile; la fronte, a rughe intagliate come nel legno, affondava in un fazzoletto scuro annodato dietro. Con cenni del capo e delle mani, le faceva segno di fare piano e di avvicinarsi, e intanto gettava rapide occhiate verso la tenda verde.
Meb le obbedì, mentre questa le prendeva una mano e le sussurrava anche, e in fretta, in un inglese insicuro: «John… ho parlato con il signor John…»
«Quando?» chiedeva Meb, che fissava emozionata quell’apparizione. «Allora… quando è venuto qui in bottega… abbiamo parlato come noi adesso…» e fece una pausa, guardandola con occhi colmi di pena e di apprensione «e anche dopo… da poco.» «Come… da poco?» mormorava Meb. «Lui vuole… proteggerti.»
Le prese così anche l’altra mano, e tenendole tutte e due ben serrate tra le sue, la guardava, senza staccare lo sguardo. «Ogni tanto mi parlano… lui…» diceva, facendo cenno verso la tenda verde, «lui non vuole… ma io dico a te… come a John… vai a Liverpool station… vai!»
La chitarrina: da Petra a Liverpool station
Tra le foglie del melo s’infilava decisa la luce arancio di un sole infuocato ed estremo, come può esserlo solo al tramonto, come se ogni giorno fosse l’ultimo, e disperasse di potere mai dardeggiare ancora. «Mikie… hai trovato niente?» mormorò.
«Niente, e tu?» «No, ma…» e gli raccontò della sua visita alla bottega di Jacob Gulgig. «Mikie… hai da fare stasera? Potremmo anche noi fare un ‘bagno’ nella polvere del passato, come ogni tanto faceva il nonno.»
In soffitta trovarono il diario di zia Charlotte, e poi il fascio di luce della pila illuminò una chitarra di minuscole dimensioni, lavorata nel legno in modo rudimentale. Seduti in silenzio al tavolo di cucina, aprirono il diario.
Aveva inizio quando Charlotte, graziosa ventitreenne di buona famiglia, nel 1931 era partita per Petra, mitica capitale dei Nabatei, al seguito di una spedizione archeologica capeggiata dal prof. Clark Gainsborough, grande amico del padre.
Charlotte era appassionata, entusiasta… innamorata della vita… pronta ad emozionarsi davanti alla rosellina selvatica della campagna inglese, figuriamoci fra i templi rosati di Petra e i tramonti del deserto! All’interno della spedizione conobbe George, figlio del fratello minore del prof. Gainsborough, che agli occhi del proprio padre dedicava troppo tempo alla musica e troppo poco agli studi. Fu l’incontro di due persone che sprizzavano vitalità, entusiasmo, estrema curiosità per la vita da ogni puntolino del
loro essere. Charlotte e George s’innamorarono follemente.
Petra, 23 settembre 1931
… al tramonto io e George lanciamo i cavalli al galoppo e percorriamo affiancati la stretta gola che porta alla città antica e poi ancora nel deserto all’alba e ancora e ancora… con lui non ho paura di nulla… lo amo in modo insopportabile… quasi non riesco a respirare… potrei andare con lui ovunque…
A questa frase, scritta sul diario con l’impaziente scrittura di Charlotte, era poi seguito il racconto di come, in contrasto con il parere del prof. Gainsborough e dei propri genitori avvertiti per lettera, lei e George fossero partiti per gli Stati Uniti con destinazione New Orleans, e avessero poi peregrinato per tre anni nella zona del Delta, tra una cittadina e l’altra.
George era stato letteralmente stregato dal blues e suonava in piccole bands, un po’ qui un po’ là, cercando d’imparare il più possibile e inseguendo sempre di più “i diavoli blu”. George, a tutti i costi aveva voluto acquistare da un vagabondo di passaggio una piccola chitarra a tre corde, ingenuamente intagliata nel legno.
Da quel momento, sarà stato un caso… lei avrebbe pensato in seguito, George aveva cominciato a non stare bene… gli era venuta una strana febbre che non passava più!
Morì poco dopo, stringendole il braccio e fissandola con occhi acquosi.
Era quasi mezzanotte.
Prima di uscire, la nonna con decisione impugnò la chitarra, che ironicamente pareva osservarli da un angolo del pavimento. «Questa poi non la voglio in casa mia!» e la depositò con malagrazia nel baule dell’auto.
Arrivarono a Liverpool station.
Agli ultimi gradini del sottopassaggio cominciarono a sentire cantare, e ancora increduli, sentendosi come i fanciulli del pifferaio magico, camminarono quasi in trance seguendo la voce.
La casualità, troppo casuale, avrebbe potuto far ridere se non… quel ragazzo, cappello alla Bob Dylan su ricci capelli lunghi, suonava e cantava… Blue Spirit Blues… Meb ascoltava impietrita.
Appena finito il pezzo, il ragazzo li guardò e ne attaccò un altro che Meb non aveva mai sentito. Il ragazzo suonava… cantava… e intanto, con un’espressione fissa, non staccava gli occhi da loro… narrava di acqua… anzi di due tipi d’acqua… di acqua bassa stagnante che portava guai e morte, e di un’altra… che va e scorre… e finalmente porta via tutto quanto.
Tutto quello che avvenne dopo recava in sé la leggerezza di un lieto fine, o almeno Meb e Mikie lo speravano. L’auto filò verso London Bridge, il ponte più vicino. Era una strana coppia quella che si avviava verso il parapetto del grande ponte: una donna di mezza età, tutt’avvolta in un grande scialle di cachemire, appesa al braccio di un ragazzo, più alto di lei di almeno due spanne, che reggeva qualcosa.
Con un breve sguardo si assicurarono che non ci fosse polizia o altro; non si accorsero di un barbone che veniva avanti dall’altro lato del ponte, e che sobbalzò al breve tonfo dell’impatto con l’acqua.
Le acque del Tamigi accolsero la chitarrina nelle sue profondità.
Se volete conoscere meglio Susanna Trippa, potete leggere le recensioni e le interviste all’autrice dei romanzi Il viaggio di una stella e I racconti di CasaLuet.
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