Eccoci con un nuovo appuntamento con il guest post di Susanna Trippa, un racconto che vuole essere un Viaggio nel tempo.
La ringraziamo di cuore per questi racconti di viaggio, potete leggere anche A Bologna un Natale negli anni Trenta.

Viaggio nel tempo: A Bologna nei primi anni Settanta

A poco più di vent’anni – quando il futuro baluginava dinanzi a tutti noi come una sfera luccicante – il vecchio centro storico di Bologna, la mia città, era davvero per me la “Parigi minore” cantata da Francesco Guccini.
Dalla via Emilia, dove abitavo, era come fare un viaggio perché l’atmosfera che si respirava, anche spostandosi di così poco, era diversa.

Scoprivo la mia città come se la vedessi per la prima volta.

Attraversavo piazza Maggiore, di giorno e anche di notte, senza più far caso ai piccioni, che tanto temevo avvicinarsi quand’ero bambina.
Mattini freddi d’inverno, con ancora qualche vecchio, avvolto da capparella nera, a discorrere in dialetto nella nebbia.
Volatili grigi si spostavano dalla piazza fino ai cornicioni del Pavaglione, per poi avventurarsi entro gli occhi del portico, dove s’aprivano le vie del vecchio mercato, e avanzi di verdure e chissà che altro li attiravano nell’ombra.
Oltrepassavo via Rizzoli, le Due Torri sghimbesce alla mia destra e la piazzetta di porta Ravegnana, dove mi attirava la libreria Feltrinelli.

viaggio nel tempo, bologna

Là iniziava via Zamboni. M’incamminavo verso l’Università.

Sotto le arcate dei portici stavano i sedili in pietra che, nel medioevo, avevano dato ricovero ai clerici vagantes.
Incontravo poi piazza Rossini e il teatro Comunale di fronte a quella. Allora, subito dopo il Sessantotto, ogni spazio era invaso da eskimo, barbe lunghe e sciarpe rosse.
I piccioni volavano più alti, rasente ai cornicioni dei palazzi. Nelle lunghe notti d’estate alcuni di loro s’attardavano, cercando ancora qualcosa da mangiare, sul quadrilatero di piazza Maggiore.

Mi addentravo nel silenzio di quello ch’era stato il quartiere ebraico: contemplavo le facciate storte, le travi in legno.
Più in là, oltre il Conservatorio e piazza Rossini, dalle parti di via Acri dove c’era la segreteria, camminavo adagio sotto la copertura bassa dei portici.
Certi giorni andavo da un’amica, conosciuta da poco, proprio in una di quelle vecchie case. M’arrampicavo fino a una stanzetta affacciata fra i tetti rossi, dove gatti miagolavano strazianti e latte arrugginite ospitavano pochi fiori.
Nelle scale buie resisteva un odore che si faceva fatica a identificare, come una mescolanza di tanti altri. A me pareva un assaggio di bohème.

Non era più la Bologna di quando, bambina, andavo con mia mamma nella merceria dai mille cassettini o poi dalla dentista in galleria Cavour, ma neanche quella di Bang Bang con i suoi abitini pop. Era proprio un’altra città.
Una sera però, guardando la città dal colle dell’Osservanza nell’ora del tramonto, avevo stranamente avvertito che non sarei stata là per sempre. E così accadde infatti.

Se volete conoscere meglio Susanna Trippa, potete leggere le recensioni e le interviste all’autrice dei romanzi Il viaggio di una stellaI racconti di CasaLuet e Come cambia lo sguardo.

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